Un articolo apparso nei giorni scorsi su Science Daily annuncia un’importante scoperta nel settore dei biocarburanti prodotti da sostanze lignocellulosiche, altrimenti detti di seconda generazione.
I biocarburanti di prima generazione sono quelli che devono contare su colture alimentari come materia prima. Mais, soia, palma e canna da zucchero sono tutte ottime fonti facilmente accessibili di zuccheri, amidi e olii. I problemi maggiori con i biocarburanti di prima generazione sono numerosi e ben documentati dai vari media, e vanno dalle perdite di energia al netto delle emissioni di gas serra ad un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari. Per dare l’idea della bassa produttività di questi biocarburanti, da un ettaro coltivato a mais si può arrivare a produrre una tonnellata di biodiesel: se i terreni italiani attualmente incolti (a meno che non ci sia qualcuno che preferisca andare in auto anzichè nutrirsi!…) fossero dedicati al mais per biodiesel, si riuscirebbe a soddisfare meno del 5% del parco trasporti nazionale. Non è certo una strada che porta lontano.
I biocarburanti di seconda generazione o lignocellulosici, utilizzano la biomassa di residui boschivi o dell’industria agroalimentare, coltivazioni a rapida crescita tipo il pioppo o il sempre più famoso e studiato Miscanthus in grado di produrre decine di tonnellate di biomassa per ettaro. I sistemi di produzione appositamente progettati utilizzano microrganismi per lavorare la materia prima dura come la cellulosa per estrarne zuccheri poi fermentati. In alternativa processi termochimici vengono utilizzati per trasformare la biomassa in liquido.
Il grosso vantaggio rispetto ai biocarburanti attuali è che possono utilizzare un bacino di raccolta di biomassa assai maggiore proveniente da coltivazioni che non entrano in conflitto coi prodotti alimentari ed hanno un bilancio energetico decisamente conveniente, una volta messi a punto i processi produttivi.
Ed è proprio in questo settore l’annuncio riportato da un articolo di “Chemistry & Sustainability, Energy & Materials”, ove ricercatori dell’Università del Massachusetts-Amherst hanno annunciato la prima conversione diretta di sostanza lignocellulosica in benzina sintetica. Possono necessitare anni prima che questa benzina verde arrivi alle pompe dei distributori ma questa scoperta ha superato diversi ostacoli verso l’ingresso nel mercato. Questo processo richiede assai meno energia per produrre del biocarburante, avendo “un’impronta di carbonio” assai minore ed essendone più economica la produzione.
Il nuovo processo per la conversione diretta di cellulosa in benzina verde è all’avanguardia nel progetto “Greeen Gasoline” che la National Science Foundation assieme ad altre agenzie federali americane sta promuovendo. Nel rapporto “Breaking the Chemical and Engineering Barriers to Lignocellulosic Biofuels: Next Generation Hydrocarbon Biorefineries”, presentato il primo aprile, viene descritto il piano per rendere la benzina verde una soluzione pratica per l’imminente crisi dei carburanti.
E’ questa la ricerca a cui facevo riferimento nello scritto “La sfida per l’energia del futuro” apparso di recente su Sistema Università, su cui puntare con decisione se si vogliono trovare soluzioni vere alle problematiche energetiche del nostro Paese.
Quando si decidono investimenti nel campo delle Energie Rinnovabili è importante distinguere tra tecnologie mature, incentivandone la diffusione (Idroelettrico, Geotermico, Eolico, Solare termico), e quelle che invece necessitano ancora di importanti sviluppi, come l’esempio dei biocarburanti appena visto o il Fotovoltaico: per queste ultime anziché buttare ingenti capitali in strade non sostenibili, sono sicuramente più opportuni mirati e più limitati investimenti in R&S i cui risultati non sarebbero certi ma in caso di successo molto più utili sia per le nostre Università, sia per le aziende del nostro Paese che tornerebbero ad essere leader mondiali in questo settore, come lo erano nel passato.