Intervista a Charles Kupchan: La politica estera di Bush come uno spartiacque nella tradizione politica Usa

Charles Kupchan, professore di relazioni internazionali alla Georgetown University, è convinto che la politica estera intrapresa da Bush abbia messo fine ad un’epoca, quella del liberalismo internazionale, che ha segnato la guerra fredda. Piaccia o no, la “dottrina Bush” è stata il primo grande tentativo di definire una nuova strategia statunitense dagli anni Novanta, e difficilmente si tornerà al liberalismo internazionale che ha ispirato molte scelte condivise sia dai Repubblicani che dai Democratici. Kupchan, che è stato direttore degli affari europei nel Consiglio per la sicurezza nazionale durante la prima amministrazione Clinton, crede che sia arrivato il momento di portare una ventata di freschezza nella politica estera americana, essendo gli Stati Uniti l’unica superpotenza mondiale che però deve ritrovare una strategia al passo con i tempi.

In un articolo uscito nell’autunno 2007 sulla rivista International Security, dal titolo “La fine del liberalismo internazionale negli Stati Uniti”, lei sostiene, insieme al collega Peter Trubowitz, che la politica estera americana di Bush abbia sancito la nascita di una nuova forma di internazionalismo: che cosa intende?
La politica estera americana è stata basata su uno spirito bipartisan fin dagli anni 1940, quando F.D. Roosvelt fu il primo presidente americano che, anziché scegliere fra uso della forza e uso della diplomazia per raggiungere gli obiettivi di politica estera, scelse di combinare le due tendenze e inaugurò quello spirito di liberalismo internazionale che ha attraversato tutta la guerra fredda. Democratici e Repubblicani capirono le necessità del momento e ammorbidirono le rispettive posizioni, perché la strategia prevedeva che gli Usa avrebbero usato la loro forza militare per preservare la stabilità, ma allo stesso tempo avrebbero esercitato la loro leadership attraverso scelte multilaterali e non con iniziative unilaterali. Da un punto di vista di politica interna, questo fu un piccolo capolavoro, perché le due anime politiche dell’America si ritrovarono unite davanti ad un unico fronte, ed entrambe furono in grado di fare un passo indietro rispetto alle proprie posizioni.

È stata la reazione agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 a determinare la fine di questa comunione d’intenti, oppure il problema ha radici più profonde?
La sconfitta ideologica del liberalismo internazionale risale agli anni Settanta, durante la guerra del Vietnam. La guerra però ha diviso l’America fra chi sosteneva la necessità di ridurre la dipendenza dalle istituzioni internazionali per aumentare l’utilizzo della forza militare, e chi invece credeva che la spesa militare, e dunque l’uso della forza, avrebbe dovuto essere ridotta a favore della cooperazione e del multilateralismo. Ma la minaccia incombente dell’Unione Sovietica aveva favorito il persistere di una convergenza di interessi, e così i dibattiti di politica estera non sono mai stati uno scontro fra partiti, come accade ora, ma solo all’interno dei partiti o addirittura episodi isolati. C’è sempre stato un interesse superiore che ha tenuto a freno le divisioni ideologiche. Poi già negli anni Ottanta il dibattito ha iniziato a surriscaldarsi, con la ferita della guerra in Vietnam ancora fresca. La fine della guerra fredda ha portato a galla questa polarizzazione ideologica, l’unilateralismo ha ammorbidito la necessità di avere una disciplina bipartisan e il paese è tornato a dividersi lungo lo schema repubblicani/democratici. Il liberalismo internazionale, secondo me, è arrivato al capolinea non solo e non tanto perché l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 ha catalizzato le energie dei repubblicani verso soluzioni di forza, quanto perché è finita un’era di bilanciamento fra cooperazione internazionale e utilizzo della forza militare, e non si sente più la minaccia imminente che era dell’Unione Sovietica.

Secondo questo schema quindi, se l’America dovesse avere un presidente democratico la spesa militare diminuirà, mentre nel caso vincesse un repubblicano prevarrà la scelta di soluzioni militari a quelle diplomatiche?
Sinceramente non credo che la spesa militare possa diminuire, perché è molto elevata e rimarrà tale per diversi anni, l’impegno dei soldati in missione non può essere sospeso all’impronta. Però ritengo che un presidente democratico possa essere più incline a sfruttare la diplomazia regionale o le istituzioni internazionali, che l’amministrazione Bush ha sempre sottovalutato e mancato di coinvolgere anche quando era necessario. Penso all’Afghanistan: sono convinto che i democratici concentreranno lì le energie per affrontare il problema del terrorismo, e non si affideranno di certo a soluzioni militari. Se invece sarà eletto presidente il senatore McCain, io credo che avremo una sostanziale prosecuzione delle politiche adottate finora, e mi riesce difficile immaginare che se ne discosterà, pur sottolineando la sua sostanziale distanza politica dai neoconservatori dell’amministrazione Bush.

Anche per l’Iran sarà così?
Sì, le soluzioni saranno diverse. Tenga presente che, oltre alle ben note dichiarazioni di dialogo del senatore Obama, McCain ha lasciato intendere che, secondo lui, l’unica cosa peggiore di una guerra contro l’Iran è che Teheran si riesca a dotare dell’arma nucleare. Sembra essere un’implicita ammissione di un piano di guerra all’Iran.

In effetti il senatore McCain ha assunto diverse posizioni spigolose in politica estera. Anche sulla Russia, quando ha dichiarato che, al contrario di Bush, lui nell’animo di Putin ha letto tre lettere: K-G-B. Secondo lei è una premessa ad un confronto più aspro?
Io sono convinto che la relazione fra Russia e Stati Uniti non sarà calorosa a prescindere dal presidente. Certo, con McCain si inaspriranno i toni e forse anche i contenuti. Lui è sempre stato critico nei confronti del Cremlino, ha addirittura dichiarato di voler espellere la Russia dal G8 e favorire l’ingresso di Brasile e India. È altrettanto chiaro che un presidente democratico cercherà di stabilire un clima di dialogo meno carico di tensioni, ma non dimentichi che un cambio di leadership in tutti e due i paesi potrà forse giovare al rapporto.

Per quel che riguarda il Kosovo, un banco di prova importante per le relazioni transatlantiche, come vede la situazione?
Gli Stati Uniti credono sinceramente che un disimpegno dalla regione sia possibile, anche perché le aree sulle quali sono concentrate forze ed energie sono altre, a partire dall’Iraq. E sono altrettanto convinti che l’Unione Europea sia in grado di gestire la situazione da sola, anche se una presenza della Nato deve proseguire. Il Kosovo rappresenta l’esempio migliore dove diplomazia e azione militare vanno braccetto, perché entrambi gli strumenti sono necessari.

Nei suoi interventi lei parla anche della necessità di un nuovo modo di pensare, un new thinking in politica estera: cosa intende? Chi è in grado di dare vita a questo new thinking?
Il futuro presidente, chiunque sia, dovrà rendersi conto che il panorama politico internazionale è cambiato, che l’America è cambiata, che il mondo è cambiato e sta andando in una direzione che richiede una visione adeguata, una dottrina politica al passo con le sfide. Vedo la necessità di un approccio in linea con questa situazione, che sia più moderato e centrista, in grado di bilanciare le opposte tendenze. Credo inoltre che, indipendentemente da chi sarà eletto presidente, il primo passo dovrebbe essere di riconquistare legittimità internazionale. Infine, il candidato più indicato a dare vita a questo new thinking, secondo me, è Barack Obama, perché è giovane, non appartiene all’establishment e non è inesperto in politica estera tanto quanto la senatrice Clinton vuole far credere. Il candidato ideale per un cambiamento è Obama, non c’è dubbio.

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